La paternità del prete, uno sguardo spirituale e psicologico

Il terzo appuntamento di aggiornamento del clero ha riunito in Seminario i sacerdoti con il vescovo Oscar martedì 28 gennaio. Relatore don Vittorio Conti, sacerdote e psicologo della diocesi di Milano, che ha affrontato il tema della paternità del prete dal punto di vista spirituale e psicologico (i precedenti interventi – di padre Marco Rupnik e di Mauro Magatti – lo avevano fatto dal punto di vista teologico/pastorale e antropologico/culturale). La relazione di don Vittorio ha suscitato grande interesse, come testimoniato dal ricco dibattito che ne è seguito, per la profondità dei contenuti unita agli agganci estremamente concreti alla realtà effettiva dei presbiteri oggi e alle condizioni attuali dell’esercizio del ministero. Don Vittorio ha mostrato di avere davvero le mani in pasta, per quanto riguarda la vita dei preti, facendo egli parte di una equipe di sostegno psicologico-relazionale attiva nella arcidiocesi milanese.
La sua relazione ha preso avvio dalla realtà paradossale del celibato ecclesiastico (l’autore ha volutamente ignorato le recenti polemiche che hanno coinvolto al riguardo papa Benedetto XVI e il libro del cardinal Robert Sarah). Il celibato è un paradosso perché si colloca fra i due estremi, egualmente errati, della rinuncia e dell’eccessiva spiritualizzazione dell’amore umano sessuale. Da un lato il celibato è obiettivamente una mancanza: mancanza di un rapporto di sponsalità con una donna e alla paternità nella carne. Inutile girarci intorno: umanamente parlando si tratta di due ammanchi secchi, e occorre estrema sincerità nel riconoscerlo. Se per un prete, o per un candidato al sacerdozio, queste mancanze non dovessero apparire tali, e nemmeno una obiettiva difficoltà sul piano umano, di tale soggetto si dovrebbe immediatamente sospettare quanto alla sua sanità mentale. Dall’altra parte il celibato appare una mancanza solo se non
vengono in soccorso la luce e la grazia della rivelazione cristiana. Ecco allora l’uso delle metafore (il prete «sposo della Chiesa» e «padre spirituale»), che trasformano tali mancanze in  altrettante condizioni soprannaturali di grazia. Il celibato cessa allora di essere semplicemente una mancanza, e diventa un frutto tipico del Regno di Dio e dell’avvento, in Cristo, dei tempi
ultimi. In effetti solo per una bellezza e un senso infinitamente più grandi sarebbe possibile vivere la mancanza dell’amore umano sessuale. Tale bellezza e tale senso sono appunto
il rapporto totalizzante con Cristo (metafora nuziale), il servizio paterno e fraterno alla Chiesa (metafora paterna del Regno da edificare) e la radicale povertà di spirito che diventa spazio per la presenza beatificante di Dio (metafora della signoria di Dio).
A queste metafore, certificate dalla tradizione, don Vittorio ne ha aggiunta un’altra, sulla quale si potrebbe convenientemente riflettere: l’analogia fra la paternità del prete e la «paternità putativa» che si realizza nei casi di adozione e di affido. Dove si tratta, evidentemente, di effettuare un duplice riconoscimento (del figlio da parte del padre, ma anche del padre da parte del figlio) in assenza, e non in presenza, di un dato biologico di paternità naturale. L’uso di tutte queste metafore è ovviamente legittimo, e anzi doveroso, diversamente il celibato rimarrebbe una
mancanza inspiegabile. Tuttavia – ha ricordato don Vittorio nel solco della grande dottrina della Chiesa (cfr. il principio del Concilio Lateranense IV della legittima «similitudo in major dissimilitudo») – l’uso di tali metafore non deve essere forzato. La «sponsalità del prete» è solo analoga alla sponsalità nella carne, così come la «paternità spirituale» è solo analoga alla
paternità nella carne. E questo ci rimanda al punto di partenza: la sincerità nel riconoscere una «mancanza» che è obiettiva, e con la quale occorre fare i conti. Don Vittorio ha poi declinato il tema della paternità del prete parlando della «sfida dell’eredità». Un padre è tale se «lascia» qualcosa a chi viene dopo di sé: qualcosa che a volte può essere un lascito materiale, più spesso si tratta di un lascito ideale come patrimonio di idee e di impronta educativa. In generale si tratta comunque di aver generato una umanità che va avanti «dopo di me». Il tema è delicato, perché chiama in causa sia la grande diversità fra le singole generazioni di preti (i preti anziani hanno un’idea alquanto diversa, rispetto ai preti più giovani, su cosa si può e si deve lasciare in eredità), sia il particolare «frame» storico che stiamo vivendo. Che, nella transizione dal modello tridentino alla società secolarizzata, sfida i sacerdoti a ritrovare il senso vero della loro presenza e del loro ruolo nel mondo. Sappiamo bene che è questa la vera causa delle crisi sacerdotali, rispetto alle quali le difficoltà a vivere la scelta celibataria si pongono in termini più di «sintomo» che di «causa».

A questo link è possibile visionare il video dell’intervento di don Vittorio Conti: http://www.diocesidicomo.it/don-vittorio-conti-la-paternita-spirituale-del-prete/

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