Parola, fede e Chiesa oltre la pandemia

La paura, si sa, è un segnale inconscio e anticipatorio, un campanello che allarma sul rischio di morire. Per questo il paragone migliore, per parlar di paura, è quello di una casa che trema e sente di esser fondata sulla sabbia. In effetti i pilastri della nostra “solidità” – la salute, il lavoro, le relazioni – hanno subìto un vero terremoto. La pandemia Covid-19 è stata causa di diverse paure: di ammalarci, di morire, di non avere armi di difesa, di andare incontro all’ignoto, a qualcosa che non potevamo/possiamo controllare, di non poter soccorrere i nostri cari, di essere soli a combattere, di perdere il lavoro. Dove abbiamo cercato di ripararci da tante paure?

Su quali scialuppe abbiamo cercato di saltare prevedendo il naufragio della nave? Potremmo elencare le più comuni: nella fiducia in chi ci dava istruzioni per difenderci (gli scienziati, i politici), nel chiuso delle nostre case, nei nostri affetti, nei nostri conti correnti (stipendi sicuri, pensioni o rendite fisse ecc.), nelle strutture e nei presìdi sanitari, nella Tv, nel telefono e nella tecnologia (le piattaforme digitali, internet, WhatsApp, Skype ecc.) per avere notizie più dirette, per comunicare coi familiari (figli, nipoti, parenti, amici fisicamente lontani), o anche nel commercio online che abbiamo usato per ordinare la spesa, la pizza, i medicinali, così come per ottenere impegnative da portare in farmacia dal nostro medico di famiglia. Certo, si è trattato di scialuppe dove solo una parte d’Italia (e del mondo…) si è potuta imbarcare. Molti han dovuto aggrapparsi ai rottami della nave; altri – senza neppure quelli – hanno nuotato finché c’era il fiato.
E la fede? Per i cattolici la fede è stato un “luogo”, un “dove” cui si sono appellati? Ha avuto un’importanza?Consideriamo, allora, cosa si debba intendere per “fede”…

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