Seconda domenica dopo Natale

Un saluto e un augurio affettuoso ai membri di questa santa assemblea celebrante, qui riuniti nella nostra cattedrale, la chiesa madre, come a tutti voi, amici che ci state seguendo attraverso la tv o via streaming dalle vostre abitazioni.

È una felice occasione per me potermi collegare con voi, nelle diverse parti della nostra vasta diocesi e così farvi giungere un segno di vicinanza come pure di augurio per l’anno nuovo appena iniziato.

La mia vicinanza accompagna in particolare quanti sono colpiti dal corona virus o che sono in quarantena, quanti  sono ricoverati negli ospedali o nelle case di riposo per anziani e coloro che se ne prendono cura. Ricordo le famiglie in difficoltà, persone che hanno avuto in questo giorni dei lutti di loro familiari o che stanno passando un periodo di forte preoccupazione per i prossimi mesi. C’è pure chi vive un disagio sommerso tra i ragazzi e nei giovani che vivono  rinchiusi in casa, impossibilitati a incontrare i loro amici.

L’augurio per il nuovo anno è che ciascuno possa riconoscere la presenza amorosa del Signore, anche se silenziosa, sapendo che siamo sempre nelle sue mani e che non possiamo mai perdere la fiducia né la speranza. Vorrei suggerire a tutti una invocazione: “Affido, o Signore, il mio presente al tuo amore. Il mio passato alla tua misericordia. Il mio futuro alla tua provvidenza!”

La liturgia di questa seconda domenica dopo il Natale ci vuole aiutare ad approfondire il senso del Natale del Signore appena celebrato e ci insegna a riscoprirne il frutto perché la sua visita è sempre una occasione di crescita.

La preghiera di colletta, che ho indirizzato a nome di tutti al Signore, ci offre l’opportunità per mettere a fuoco il punto centrale.

Si tratta di una invocazione rivolta a Dio padre perché tutti noi, credendo nel suo Figlio unigenito, “gustiamo la gioia di essere tuoi figli“.

Ecco perché Gesù è venuto tra noi: ci ha donato Dio, di cui siamo figli, consapevoli e grati.

Dio ci è venuto incontro entrando, attraverso Gesù, nella nostra storia umana. Egli si è fatto carne, divenendo uno di noi, perché anche noi potessimo diventare come lui, figli di Dio, amati.

Siamo stati “scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità, predestinandoci ad essere per lui figli adottivi, mediante Gesù Cristo”, come abbiamo ascoltato nella seconda lettura.

La nostra umanità (e non altrove!) diventa così il luogo dove si realizza l’incontro tra Dio e noi, lo spazio santo dove Dio si lascia incontrare, a partire dai nostri gesti semplici, perché quotidiani e ordinari.

È bello e consolante sentirci figli amati, cercati da Dio, che riversa su di noi il suo amore di padre, essendo noi tutti e ciascuno preziosi ai suoi occhi e al suo cuore. Non siamo abbandonati a un destino cieco, ma inseriti in un progetto d’amore da parte di Dio, che si preoccupa di noi, anche e soprattutto in questo periodo così triste della nostra storia umana.

Proprio perché figli, noi contiamo per Dio, prima ancora dei nostri meriti o al di là delle nostre colpe, delle nostre qualità o dei nostro impegno. Dio ci ama non perché siamo buoni, ma perché Lui è buono, essendo amore gratuito.

Da qui la nostra grandezza e la nostra gloria, la nostra dignità e il rispetto che ci è dovuto, proprio in quanto figli di Dio.

Da qui ne consegue il nostro impegno a vivere da veri figli di Dio come una grazia che si sviluppa nel tempo e diventa una occasione per maturare la nostra umanità. Essa cresce tanto quanto noi ci facciamo dono, non pensiamo solo a noi stessi, ma allarghiamo lo sguardo agli altri, prendendoci cura di essi.

Teoricamente sappiamo bene che non siamo figli unici e che facciamo parte di un popolo di fratelli e sorelle, su cui riversare a nostra volta tutta la nostra amorevolezza, ma non bastano i buoni propositi, occorrono fatti concreti e scelte precise.

In questi mesi di pandemia abbiamo imparato a stringere nuovi legami di solidarietà, sapendo che ognuno di noi ha bisogno degli altri e che nessuno si salva da solo.

Abbiamo avuto la possibilità di scoprire la vicinanza degli altri, di quanti si sono presi cura di noi, ci hanno sostenuto non solo con il loro semplice ruolo professionale o istituzionale. Essi sono andati oltre, ossia si sono qualificati dei veri autentici fratelli, senza risparmio di tempo e dedizione. A volte, alcuni di loro hanno rischiato anche la vita pur di venire incontro a chi fosse in difficoltà.

Siamo entrati in un tempo propizio, nonostante le avversità, per crescere  in quella “cultura del dono” che deve continuare e moltiplicarsi oltre il tempo dell’emergenza, che deve essere costantemente promossa e coltivata. Per questo, per dirla con Papa Francesco, c’è bisogno non solo di un vaccino per il corpo, m anche un “vaccino per il cuore”

“il Natale del capo, diceva S. Leone Magno, è il Natale del corpo, tutti i membri della  Chiesa. E noi diveniamo veramente figli di Dio se ci prendiamo cura dei nostri fratelli, come parte dell’unico corpo.

Da qui le nostre scelte responsabili.

Questo sia il frutto della Eucaristia che stiamo celebrando.

 

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